La Storia

Palazzo Romano

Palazzo Romano era la residenza di Federico Romano, eroe e martire dell’olocausto di Carlo Pisacane. Nacque il 12 maggio 1814 e come tanti altri sostenitori di un’Italia unita ed indipendente, ricevette un’educazione a liberi sensi, grazie soprattutto allo zio Lorenzo, sacer­dote di puri costumi, che sostenne i suoi studi. Provato dagli episodi di eroismo che lo zio ed altri uomini avevano messo in campo nel 1799 e nel 1820, contro le detestate dominazioni,  fu sin da subito pronto a dare il suo contributo a favore degli oppressi.
Per un brevissimo periodo risultò iscritto anche alla Carboneria, insieme ad altri accesi liberali come Michele Netti e Raffaele Caolo.
Mentre poche decine di ardimentosi con Pisacane salpa­vano da Genova sul “Cagliari”, a Padula Federico Romano si organizzava all’imminente rivoluzione. La preparazione però era iniziata già da quando viveva a Napoli, periodo in cui era entrato in contatto con i liberali più in vista Giu­seppe Fanelli e Giacinto Albini.
Quando, sull’imbrunire del 30 giugno 1857, arrivò quasi inattesa a Pa­dula la stremata e disperata legione di Sapri, si diresse subito al palazzo del Romano, già designato come sede del Comando, e si accampò col Falcone e col Nicotera sul piazzale Croce (oggi Largo 1 Luglio) sperando di trovare uomini già pronti ed armati, giacché il Fanelli aveva fatto intendere al Pisacane che s’era accordato col Romano; invece ben presto si accorse che gli abitanti erano atterriti e disorganizzati. Trovò sol­tanto i fratelli Santelmo, Federico Romano e pochi altri cospiratori. Adu­natili in casa Romano insieme al sindaco e al giudice supplente parlò loro, facendo conoscere l’urgenza di armarsi, sperando che da un momento al­l’altro comparissero almeno alcuni dei compagni coi quali era stato in cor­rispondenza.
L’alba del 1 luglio trova Padula occupata da un nucleo di soldati ne­mici. Una lotta micidiale, che dura circa mezz’ora e porta al primo mas­sacro. Ma ben altro e più agguerrito numero di borbonici affrontava i nostri, che, vistisi perduti, indarno invocanti la pace in nome della Patria comune e della libertà, o caddero con le armi in pugno o furono trucidati in un vicolo cieco ed ammucchiati come inutile carname.
Le tenebre della sera scendevano a coprire il terribile eccidio, mentre i pochi superstiti spiegavano il vessillo tricolore al grido d’Italia, avviandosi alla volta del Cilento.
Dopo questa strage, il palazzo Romano fu saccheggiato ed incendiato e la famiglia si salvò disertando. Parecchi sospetti caddero sul Romano. Tra le altre accuse mossegli vi fu quella di avere scritto finanche i proclami nel paese e nei dintorni in numero rilevante di copie, per cui fu inesorabil­mente perseguitato. Egli intuì tutto e si rese latitante, rifugiandosi alla meglio fino ai primi del ’59 a rincasare. Fu piantonato in casa dalle guardie e, per giunta, l’estrema agonia del martire fu funestata dalla presenza dei poliziotti feroci e spietati, che gli proibirono perfino di esprimere le ultime volontà e di rivolgere una parola ai familiari desolati. Morì il 18 marzo 1859.

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