Carlo Pisacane e i suoi 300

Carlo Pisacane, una spedizione tra mito e realtà
 
Nella primavera del 1861 la provincia di Salerno era a tutti gli effeti nella nuova nazione. La storia del Risorgimento salernitano non fu certo limitata alla esaltante estate del 1860. Nei decenni precedenti furono tantissime le complesse e drammatiche vicende che agitarono la lotta politica e la societá del Principato. La nostra provincia, tre anni prima di quella estate, era stata il tragico teatro dell’ultima grande impresa di Mazzini e del movimento repubblicano. La Spedizione di Sapri, in realtá non durò più di una settimana. Eppure entrò subito nella mitologia risorgimentale dove resta tutt’ora circondata da un alone romantico o da feroci polemiche politiche. Giá all’epoca Karl Marx prese spunto dal fallimento di Pisacane per liquidare il suo rivale rivoluzionario Mazzini, definendolo nientedimeno che un somaro. Liberali come Settembrini o Cattaneo fecero a pezzi i concetti di fondo del disperato tentativo mazziniano. Polemiche politiche e storiografiche si accesero e spensero per decenni. La storia di quei giorni fu molto più rapida. Pisacane partì alla fine di giugno del 1857 da Genova. Dopo essersi impossessato del Cagliari, il piroscafo dove viaggiava con i suoi compagni sotto mentite spoglie, effettuò un rapido blitz nel carcere borbonico di Ponza. Sgominata l’incredula e poco combattiva guarnigione arruolò alcune centinaia di militari in punizione e di galeotti (tra le perplessitá dei pochi prigionieri politici presenti, che consideravano il tutto una follia). La nave stracarica partì per Sapri. Lo sbarcò fu seguito da una effimera sparatoria con le Guardie Urbane della cittadina (che scapparono subito).
• Poi la colonna di Pisacane iniziò la sua marcia verso l’interno. Sperava di trovare folle di rivoluzionari ma non incontrò nessuno. I rivoltosi arrivarono al Fortino, incrocio tra Campania, Basilicata e Calabria. I due principali collaboratori del colonnello Pisacane, meridionali come lui, Giovanni Nicotera e Giovan Battista Falcone, volevano deviare per la Calabria (protagonista della rivoluzione del ’48) o per la Basilicata (da Lagonegro erano arrivati dei corrieri liberali per cercare gli sbarcati perché avevano intuito qualcosa dal telegrafo borbonico). I due giovani rivoluzionari si resero conto che nessuno sapeva cosa faceva lì quel gruppo di galeotti guidato da barbuti rivoluzionari. Pisacane non voleva sentire ragioni e decise di mantenere fede al suo piano. Il disegno della Spedizione prevedeva la marcia su Salerno attraverso Auletta ed Eboli, la proclamazione dell’insurrezione generale e poi una rapida puntata sulla capitale. Contemporaneamente la rivoluzione doveva iniziare nelle province e nella capitale. In realtá si profilò immediatamente il disastro. Nessuno sapeva chi erano, ne si intravedevano partoclari preparativi (e in realtá, a parte qualche riferimento napoletano, nessuno dei pure numerosi cospiratori meridionali sapeva che era giunta la Spedizione).
• Nel frattempo, nell’Alta Italia, agitatori mazziniani avrebbero dovuto dar vita a rivolte a Genova e a Livorno per trasformare la Spedizione in un grande moto nazionale. A Napoli non succedeva nulla. Solo in Basilicata qualche voce era giunta allo stato maggiore rivoluzionario che aveva mandato alcuni uomini a cercare di capire che succedeva. I tentativi al nord abortirono subito, tra le unanimi critiche sia dei moderati cavouriani che dei democratici radicali, indignati dal tentativo di allargare la sovversione al Piemonte costituzionale. Più grave e drammatico fu l’epilogo del tentativo nel Regno delle Due Sicilie. La reazione delle istituzioni borboniche era stata straordinariamente efficiente. I giudici regi e le Guardie urbane, dopo aver dato l’allarme, si erano concentrati disciplinatamente su Sala. Le forze di sicurezza borbonica furono immediatamente operative: un battaglione di fanteria leggera, i cacciatori borbonici, si dirigeva a piedi su Sala, guidato dal colonnello Ghio, che avrebbe dovuto avere il comando generale delle operazioni. Un altro battaglione raggiunse Sapri per mare, altri ancora si posizionavano verso Lagonegro per chiudere i rivoltosi in una tenaglia. A Sala il sottintendente Calvosa e il comandante della Gendarmeria De Liguoro radunarono le Guardie Urbane del Vallo di Diano e i gendarmi a piedi e a cavallo. Gli urbani erano un corpo di fedelissimi del Re eppure De Liguoro, che da tempo andava a caccia di sovversivi nel Cilento, li epurò ulteriormente prima di renderli operativi. Il 30 giugno regolari e paramilitari borbonici erano radunati per farla finita con i sovversivi e aspettavano i rinforzi che stavano arrivando da ogni dove. Lo stesso giorno Pisacane era a Padula. Entrato nel paese, trovò pochi liberali confusi e soprattutto pochi uomini. Nella tradizione orale del posto si raccontava che il colonnello affermò di esser giunto in un paese di femmine, in realtá la gran parte degli uomini andava a lavorare, stagionale, nella Puglie. In ogni caso cercò di organizzarsi, pose il quartier generale nella parte alta del paese, nel palazzo della famiglia liberale Romano e si preparò allo scontro che oramai era imminente, sperando che qualcuno potesse raggiungerli ed aiutarli. Era tutto vano. Il giorno dopo la battaglia iniziò senza nessun amico all’orizzonte. Pisacane spiegò i suoi uomini a semicerchio su una collina che dominava il paese. Iniziò un acceso fuoco di fucileria con la Guardia Urbana e con la Gendarmeria borbonica di De Liguoro. I suoi uomini, disperati, non mancarono di coraggio. Nel successivo rapporto il funzionario borbonico Calvosa scrisse che si battevano lanciando le grida sediziose di viva l’Italia, viva la libertá. La resistenza crollò quando arrivarono i rinforzi borbonici. La fanteria leggera prese di fianco la colonna di Pisacane. Questi prima ripiegò sul paese poi, dissolta la resistenza, fuggì con un centinaio di uomini verso la valle. I borbonici non ebbero pietá, molti della colonna furono uccisi a sangue freddo in un vicolo di Padula, altri nel combattimento, la maggioranza catturati e incatenati. Solo in quel momento giunsero dalla Basilicata i corrieri inviati dal comitato rivoluzionario, si resero conto del disastro e della inutilitá di qualsiasi tentativi di soccorso. Nel frattempo la tenaglia si stringeva definitivamente su Pisacane e i superstiti. Fuggiti da Padula e poi respinti dalle Guardie Urbane di Buonabitacolo si accamparono nelle colline dell’estremo lembo del Vallo di Diano. La fanteria borbonica risaliva da Sapri e un’altra colonna veniva da Padula. Gli urbani erano allertati e fu un gruppo di paramilitari, quello di Sanza, a scrivere la pagina finale. La mattina del 2 luglio 1857 il capo urbano e i suoi sodali mobilitarono la popolazione dicendo che arrivava un’orda di briganti. Pisacane era all’ingresso di Sanza. Il suo gruppo fu aggredito dalla folla urlante. Non volle fargli sparare addosso era venuto a liberarli, questi invece massacrarono quasi tutto il suo gruppo. Un’altra parte dalla colonna, sbandata, fu catturata dalla sopraggiunta fanteria borbonica. I sogni di Mazzini erano tramontati, per sempre.

di Carmine Pinto

Docente di Storia
contemporanea
facoltá di Lettere e Filosofia
dell’Universitá di Salerno
© riproduzione riservata

La Storia

Palazzo Romano era la residenza di Federico Romano, eroe e martire dell’olocausto di Carlo Pisacane. Nacque il 12 maggio 1814 e come tanti altri sostenitori di un’Italia unita ed indipendente, ricevette un’educazione a liberi sensi, grazie soprattutto allo zio Lorenzo, sacer­dote di puri costumi, che sostenne i suoi studi. Provato dagli episodi di eroismo che lo zio ed altri uomini avevano messo in campo nel 1799 e nel 1820, contro le detestate dominazioni,  fu sin da subito pronto a dare il suo contributo a favore degli oppressi.
Per un brevissimo periodo risultò iscritto anche alla Carboneria, insieme ad altri accesi liberali come Michele Netti e Raffaele Caolo.
Mentre poche decine di ardimentosi con Pisacane salpa­vano da Genova sul “Cagliari”, a Padula Federico Romano si organizzava all’imminente rivoluzione. La preparazione però era iniziata già da quando viveva a Napoli, periodo in cui era entrato in contatto con i liberali più in vista Giu­seppe Fanelli e Giacinto Albini.
Quando, sull’imbrunire del 30 giugno 1857, arrivò quasi inattesa a Pa­dula la stremata e disperata legione di Sapri, si diresse subito al palazzo del Romano, già designato come sede del Comando, e si accampò col Falcone e col Nicotera sul piazzale Croce (oggi Largo 1 Luglio) sperando di trovare uomini già pronti ed armati, giacché il Fanelli aveva fatto intendere al Pisacane che s’era accordato col Romano; invece ben presto si accorse che gli abitanti erano atterriti e disorganizzati. Trovò sol­tanto i fratelli Santelmo, Federico Romano e pochi altri cospiratori. Adu­natili in casa Romano insieme al sindaco e al giudice supplente parlò loro, facendo conoscere l’urgenza di armarsi, sperando che da un momento al­l’altro comparissero almeno alcuni dei compagni coi quali era stato in cor­rispondenza. 
L’alba del 1 luglio trova Padula occupata da un nucleo di soldati ne­mici. Una lotta micidiale, che dura circa mezz’ora e porta al primo mas­sacro. Ma ben altro e più agguerrito numero di borbonici affrontava i nostri, che, vistisi perduti, indarno invocanti la pace in nome della Patria comune e della libertà, o caddero con le armi in pugno o furono trucidati in un vicolo cieco ed ammucchiati come inutile carname.
Le tenebre della sera scendevano a coprire il terribile eccidio, mentre i pochi superstiti spiegavano il vessillo tricolore al grido d’Italia, avviandosi alla volta del Cilento.
Dopo questa strage, il palazzo Romano fu saccheggiato ed incendiato e la famiglia si salvò disertando. Parecchi sospetti caddero sul Romano. Tra le altre accuse mossegli vi fu quella di avere scritto finanche i proclami nel paese e nei dintorni in numero rilevante di copie, per cui fu inesorabil­mente perseguitato. Egli intuì tutto e si rese latitante, rifugiandosi alla meglio fino ai primi del ’59 a rincasare. Fu piantonato in casa dalle guardie e, per giunta, l’estrema agonia del martire fu funestata dalla presenza dei poliziotti feroci e spietati, che gli proibirono perfino di esprimere le ultime volontà e di rivolgere una parola ai familiari desolati. Morì il 18 marzo 1859.

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